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Università, investimenti e riforme: cosa resta dopo il PNRR


Investimenti accademici e lavoratori precari

Visto il ruolo del finanziamento pubblico nella spesa universitaria, i nuovi tagli alla ricerca contribuiranno a consolidare il trend di investimenti stagnante degli ultimi decenni. Bisogna però considerare un fatto: questi tagli avvengono in chiusura del PNRR, che aveva destinato 8,55 miliardi di euro a ricerca e sviluppo (M4C2). Parte di queste risorse sono state investite per la creazione di nuovi assegni di ricerca, posizioni RTDA, oltre che di dottorati. Si tratta, del ‘pre-ruolo’ universitario.

Questo investimento, secondo le analisi di Roars hanno determinato un incremento vertiginoso del numero di lavoratori precari dell’Università, diventati il 40% nel 2023 secondo il Mur. L’effetto combinato della futura riforma del pre-ruolo, i tagli ai fondi pubblici per la ricerca, uniti alla fine del PNRR in meno di 14 mesi, minacciano effetti esplosivi rispetto al futuro dei precari.
I soldi del PNRR, che avrebbero dovuto essere “investimenti” non si sono tradotti in una aumentata capacità di spesa. Finito il PNRR, occorre chiedersi se il sistema italiano voglia mantenere il trend stagnante degli ultimi decenni, o se ritenga che gli investimenti in ricerca possano effettivamente guidare la crescita del sistema produttivo. La stretta implementazione del Patto di Stabilità, se le priorità di spesa rimangono invariate, determinerà la stagnazione degli investimenti pubblici nella ricerca.

Descrivendo una mia collega, una professoressa francese usò, anni fa, quest’espressione come complimento: ‘temprata dalla durezza dell’accademia italiana’. Il sistema delle imprese italiane sarà in grado di riassorbire l’ampio numero di ‘cervelli’ che verrà, verosimilmente, espulso dalla ricerca pubblica, o sarà qualche altro Paese a beneficiare dell’intelligenza che la nostra università ha temprato?



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