Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni inviateci dal presidente Unimpresa Irpinia Sannio Ignazio Catauro. “L’Italia, un tempo tra le economie industriali più dinamiche d’Europa, ha vissuto negli ultimi decenni un progressivo processo di deindustrializzazione, con gravi conseguenze economiche e sociali. Questo fenomeno, comune a molte economie avanzate, ha colpito in modo particolare il Mezzogiorno, dove il declino industriale si è tradotto in disoccupazione, emigrazione giovanile e divari territoriali sempre più marcati.
Oggi, di fronte alle crisi globali, dalla post-pandemia alla guerra in Ucraina, dalle tensioni geopolitiche alla transizione ecologica, è sempre più urgente avviare un processo di reindustrializzazione, soprattutto nel Sud Italia, per garantire crescita sostenibile, occupazione e autonomia strategica.
È urgente esplora le cause della deindustrializzazione, le sue conseguenze e le possibili strategie per una reindustrializzazione efficace, con particolare attenzione al Mezzogiorno.
La prima domanda che ci poniamo oggi con estrema insistenza è: “Cos’è la deindustrializzazione e perché è un problema?”. La risposta è quasi ovvia e scontata, ma decisamente priva di spazi e tempi nel dibattito pubblico sui temi della decrescita e del depauperamento sociale ed economico dell’intero Mezzogiorno.
La deindustrializzazione è stato quel processo basato sull’assioma, scontato, della riduzione del peso del settore industriale nell’economia, misurato in termini di occupazione, valore aggiunto e contributo al PIL. In Italia, questo fenomeno è particolarmente accentuato dal declino del settore manifatturiero che ha portato, tra il 2000 e il 2024, la quota del settore industriale sul PIL italiano dal 25% al 16% (ISTAT). Una perdita di competitività che ha portato l’Italia a perdere quote di mercato globale a vantaggio di Germania, Cina e Paesi emergenti. Una delle cause più discusse è nella scellerata politica di delocalizzazioni che ha visto molte imprese spostare la produzione all’estero, soprattutto nell’Est Europa e in Asia.
La deindustrializzazione per un Paese come l’Italia a forte trazione manifatturiera rappresenta oggi il vero grande problema irrisolto della nostra economia. La prima grave conseguenza di questo tipo di politica è la perdita di posti di lavoro ben retribuiti, infatti l’industria genera occupazione stabile e salari più alti rispetto agli altri settori come i servizi che generano occupazione a basso valore aggiunto. La definitiva dipendenza dall’estero è l’altro tema che incide più negativamente sull’assenza di una base industriale stabile e codificata, il Paese è diventato di fatto, per gran parte dei prodotti manufatturieri non alimentari, quasi completamente dipendente dalle importazioni, pensiamo all’energia, ai semiconduttori, e ai farmaci. La conseguenza più pesante di una politica “decostruttivista” avviata alla fine del secolo scorso e consolidatasi nel primo decennio di questo secolo, è stata l’accentuazione dei già esistenti divari territoriali.Un Sud, già debole, ha visto crollare i pochi distretti industriali rimasti, senza vedere in prospettiva alcuna possibilità di risalita.
Si dirà che tutto ciò sia stata causata della tanto bistrattata “Globalizzazione” affiancata alla imperitura e travolgente concorrenza cinese, con l’ingresso del paese asiatico nel 2001 nel WTO, si ritiene a torto che molte imprese italiane abbiano subito una concorrenza spietata e sleale da parte dei prodotti a basso costo, e dunque questa sarebbe la causa principe della crisi della nostra industria nazionale. Non potrebbe esserci interpretazione più errata.
Per comprendere correttamente ed in modo adeguato le cause e le conseguenze di una politica che potremmo definire di “smantellamento sistemico” è necessario soffermarsi maggiormente su quelli che sono i fattori nazionali e territoriali che hanno causato il fenomeno complessivo di una rapida e deleteria “Deindustrializzazione Strutturale”. Alle cause cosiddette strutturali, quali la mancata innovazione,la scarsa digitalizzazione e i bassi investimenti in R&S (l’Italia spende solo l’1,5% del PIL in ricerca, contro il 3% della Germania); si aggiunge certamente una burocrazia e una fiscalità oppressiva, con tempi lunghi per i permessi, tasse elevate sul lavoro, difficoltà nel fare impresa.
Tutto questo è certamente vero ma purtroppo non esaustivo per comprendere a pieno le cause di una fuga all’indietro del sistema produttivo industriale italiano, e del Mezzogiorno in particolare. Le cause reali sono da ricercare nella falsa ed errata convinzione della classe politica italiana degli anni Novanta del secolo scorso, che il tempo dell’industrializzazione fosse un fenomeno oramai superato. E parliamo di figure non di poco conto, ricordiamo Romano Prodi, e poi l’ex governatore della Banca d’Italia e poi presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, e ancora i tanti banchieri della mal tipologia dei Bazoli che professarono tutti all’unisono che l’Italia avrebbe dovuto guardare avanti. Ma di quale roseo futuro parlavano nessuno ha mai potuto vedere, né comprenderne i significati e valori.
Una cosa è certa, gli italiani in seguito a queste scelte si sono ritrovati più poveri e più insicuri. Di ultimo in seguito alle follie di Amato e Prodi poveri italiani si sono pure beccati “l’euro a perdere” ed il gioco è stato definitivamente completato. Ora ci accorgiamo che tutto è stato sbagliato, e che risulta necessario ripensare con una certa “sveltura” come riprendersi ciò che è stato tolto malamente agli italiani e in primis se ciò è possibile realisticamente.
Alla domanda del perché serve una reindustrializzazione a questo Paese ed in specie al Mezzogiorno si potrà rispondere in numerosi modi, ma dobbiamo innanzi tutto precisare che pensare ad una possibile reindustrializzazione non significa tornare al passato, ma piuttosto progettare di costruire un’industria moderna, sostenibile e tecnologicamente avanzata. Ecco perché è cruciale capire che diventa prioritario ridurre i divari Nord-Sud, oggi il PIL pro capite del Mezzogiorno è solo il 55% di quello del Nord (Svimez). Perseguire una concreta politica di reindustrializzazione significa creare occupazione di qualità e stabile, ricordiamo che il Sud ha un tasso di disoccupazione giovanile del 30%, oltre il doppio del Nord Italia. Reindustrializzare significa sfruttare le opportunità messe a nostra disposizione della transizione ecologica, lavorare sullo sviluppo delle energie rinnovabili, l’idrogeno e l’economia circolare, tutto questo può diventare concretamente un motore di sviluppo dell’intero Mezzogiorno.
Come possiamo strutturare in concreto un piano di sviluppo credibile? In primis attraverso l’adozione di politiche industriali mirate: Incentivi per l’innovazione; Credito d’imposta per R&S; Sostegno alle startup tech; Riforma fiscale che preceda il taglio del cuneo fiscale per le assunzioni nel Mezzogiorno; messa in campo di Politiche di Reshoring, ovvero agevolazioni per riportare in Italia produzioni strategiche, come la farmaceutica, la produzione di microchip, e l’industria green tech.
Una seconda cosa su cui bisogna intervenire con estrema convinzione è la definitiva creazione di infrastrutture adeguate e una logistica in grado di rispondere adeguatamente alle reali necessità delle imprese, finalizzando correttamente investimenti ed interventi mirati.
Ma la sfida più importante è nella formazione e capitale umano: Formare tecnici specializzati; Attrarre cervelli con bonus fiscali per ricercatori e imprenditori che vogliano localizzare nel Mezzogiorno le proprie imprese; Sfruttare le risorse del PNRR e dei fondi UE utilizzando i 191 miliardi del PNRR ancora disponibili per progetti industriali nel Mezzogiorno finanziando i distretti green già esistenti e altri da creare ex novo. Attraverso una collaborazione pubblico-privato si potranno rilanciare le ZES (Zone Economiche Speciali) attraverso sgravi fiscali per le imprese localizzate nel Mezzogiorno.
In conclusione, la deindustrializzazione non è un destino inevitabile, attuando politiche coraggiose, investimenti mirati e una visione strategica, il Sud Italia può tornare a essere un polo industriale di grande rilievo, sfruttando i suoi numerosi punti di forza come la sua straordinarie ed invidiabile posizione geografica quale hub tra Europa e Mediterraneo; la notevole capacità produttiva nelle energie rinnovabili dovuta alla grande disponibilità di sole e vento.
La reindustrializzazione non è solo una questione economica, ma una sfida civica: senza un Sud che cresce, l’Italia intera rimarrà fragile. Ecco perché serve con estrema urgenza un nuovo patto tra Stato, imprese e territori per costruire un’industria moderna, sostenibile e inclusiva”.
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