Open Fiber: il paradosso dello Stato che compete contro se stesso


Il caso Open Fiber rappresenta uno dei più emblematici esperimenti di intervento pubblico nel settore delle telecomunicazioni italiane. Nato con l’obiettivo di accelerare la diffusione della banda ultralarga, si è presto trasformato in un terreno di scontro istituzionale e operativo, rivelando debolezze strutturali, incoerenze regolatorie e ritardi che ancora oggi condizionano il raggiungimento degli obiettivi previsti dal PNRR.

Le origini del piano banda ultralarga e i primi ostacoli

Nel 2015, il governo Renzi lanciava il Piano Banda Ultralarga con l’obiettivo di portare la connettività veloce in tutto il territorio nazionale entro il 2020. Un’ambizione che si scontrava già allora con la complessità geografica italiana e con un mercato delle telecomunicazioni in profonda trasformazione.

Durante il mio mandato parlamentare, occupandomi di innovazione per il Partito Democratico, tentai di mettere intorno a un tavolo i principali stakeholder del settore. Purtroppo, le distanze sembravano incolmabili, probabilmente alcuni attori stavano già iniziando un’altra partita su un tavolo diverso.

La nascita di Open Fiber e il primo paradosso

Infatti, appena l’anno successivo nacque – su spinta governativa – Open Fiber, partecipata da Enel (alla quale alla fine del 2021 è subentrato il fondo Macquarie) e Cassa Depositi e Prestiti. Questa rappresentava la prima vera sfida al monopolio infrastrutturale di TIM. L’idea, ispirata da Franco Bassanini, era semplice: creare un operatore wholesale only, dedicato esclusivamente alla costruzione e gestione della rete in fibra ottica, senza fornire servizi retail. Un modello che prometteva neutralità e apertura del mercato, innescando una competizione infrastrutturale senza precedenti.

La narrazione iniziale prevedeva che la fibra sarebbe arrivata utilizzando le infrastrutture elettriche, addirittura fin dentro i condomini, grazie ai pozzetti del distributore di energia. Una visione distante dalla realtà: secondo la documentazione tecnica di Enel-Distribuzione, la rete in fibra ottica doveva sempre essere disgiunta dall’infrastruttura elettrica e non avrebbe mai potuto transitare all’interno di armadi stradali o cassette di sezionamento. Se in alcuni casi prima o dopo dei pozzetti ci sono armadi e cassette, in altri casi i pozzetti non sono presenti e pertanto ciò che sembrava semplice diventava complicato, richiedendo all’operatore di rete di realizzarli appositamente.

Ma oltre alle difficoltà tecniche, Open Fiber soffriva di un altro grande limite. Anche ammesso che il mercato fosse riuscito a colmare efficacemente il gap di competenze tecniche necessarie per realizzare le infrastrutture, mancava sul lato della domanda la necessità di avere una connettività FTTH, quando per utilizzare la maggior parte dei servizi era già sufficiente una infrastruttura FTTC. A tutto questo si aggiungeva poi un altro problema non da poco: si annunciava la copertura di una determinata zona prima ancora che la fibra fosse effettivamente “illuminata”. Questo generava aspettative tra i potenziali utenti che, di fronte a tempi di attesa di almeno tre mesi, una volta svanito l’entusiasmo iniziale, finivano per mantenere i vecchi servizi.

Infine, Open Fiber, nata con l’obiettivo principale di “portare la fibra dove non c’era” (nelle aree bianche), decise di investire anche nelle aree nere, perché più “profittevoli”. Una scelta che evidenziava come le cosiddette aree a “fallimento di mercato” forse non sarebbero state economicamente sostenibili nemmeno nel medio-lungo periodo, nonostante l’intervento pubblico. Per questo sarebbe stato forse opportuno valutare soluzioni alternative, meno onerose, soprattutto in un contesto caratterizzato da una domanda limitata e da una rete esistente in grado di soddisfare l’attuale offerta di servizi.

Il bilancio economico di Open Fiber dopo quasi dieci anni

A quasi dieci anni dalla sua nascita, il bilancio 2024 di Open Fiber evidenzia le difficoltà strutturali in tutta la loro drammaticità. Nonostante ricavi in crescita del 16% a 675 milioni di euro, le perdite si sono allargate a 364 milioni rispetto ai 296 milioni del 2023. Il debito netto ha raggiunto i 6 miliardi di euro, con previsioni di cash flow positivo non prima del 2028.

La società controllata da CDP e Macquarie ha collegato 15,9 milioni di unità immobiliari, ma sono solo 3,3 milioni i clienti attivi sulla rete. Questo significa che il ritorno dell’investimento è ancora lontano dall’essere raggiunto. E infatti, la sostenibilità finanziaria di Open Fiber dipende ancora da contributi pubblici: 660 milioni di euro sono stati concessi nel 2024 per il riequilibrio dei piani economici del Piano Banda Ultralarga. In particolare, i fondi sono destinati a coprire gli extracosti sostenuti da Open Fiber, dovuti a fattori come l’inflazione e l’aumento dei prezzi delle materie prime. La misura prevede l’erogazione di contributi fino a 220 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2027 al 2029, per un totale – appunto – di 660 milioni di euro.

Criticità di Open Fiber emergono anche nelle aree nere “urbane”, dove la sovrapposizione con l’infrastruttura di FiberCop genera duplicazioni costose. Secondo fonti di settore, il 50% del gap realizzativo nazionale si concentra proprio nelle zone dove operano entrambe le società. Il piano industriale prevede investimenti per altri 10 miliardi fino al 2034, alimentando il dibattito sulla sostenibilità del modello.

L’anomalia italiana: lo Stato in concorrenza con sé stesso

Ma qui emerge il paradosso più assurdo del sistema italiano. La competizione diretta erode i margini di entrambi gli operatori, senza generare valore aggiuntivo per il sistema. Questo è semplicemente assurdo quando si pensa che lo Stato ha un piede in entrambe le società.

Mentre Open Fiber, partecipata da CDP (ente pubblico), lottava per conquistare mercato, TIM non restava a guardare. Nel 2021 nasceva FiberCop, società controllata da TIM ma con la partecipazione del fondo americano KKR (37,5%) e di Fastweb (4,5%). L’obiettivo era accelerare lo sviluppo della rete secondaria in fibra, quella che va dall’armadio stradale alle case, mantenendo però il controllo strategico dell’infrastruttura. Successivamente FiberCop si è trasformata, ed è diventato il perno della separazione infrastrutturale e definitiva da TIM che dal luglio del 2024 è una società senza una rete: una società di soli servizi come le altre. Allo stesso tempo Fastweb è uscita da FiberCop ed è entrato il MEF con una quota del 16%, affiancando KKR (che ha il 37,8%) e altri soggetti.

Il risultato? Lo Stato italiano si trova nella posizione incredibile di partecipare, direttamente o indirettamente, in due società che si fanno concorrenza sulle aree nere. Lo Stato attraverso CDP partecipa indirettamente in Open Fiber, con il Mef partecipa direttamente in FiberCop.

La guerra delle reti e le prime contraddizioni

Il periodo 2016-2020 è stato caratterizzato da quella che potremmo definire la “guerra delle reti”. Da un lato TIM, forte della sua capillarità storica e della rete in rame, iniziava un piano di investimenti per l’upgrade alla fibra. Dall’altro Open Fiber, che puntava a costruire una rete interamente nuova in fibra ottica FTTH (Fiber To The Home).

Le prime gare Infratel per le aree bianche videro Open Fiber aggiudicarsi la totalità dei lotti. Un successo che sembrava confermare la bontà del modello, ma che nascondeva già le prime criticità operative: sottostime dei costi, complessità burocratiche sottovalutate, difficoltà nel reperimento di manodopera specializzata.

L’arrivo dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) nel 2021 ha rappresentato un punto di svolta. Con oltre 6,7 miliardi di euro stanziati per la digitalizzazione attraverso il Piano “Italia a 1 Giga”, il governo Draghi puntava a colmare definitivamente il digital divide italiano. Le nuove gare per le aree grigie, quelle zone dove esisteva già una certa copertura ma non sufficiente per gli standard europei, avrebbero dovuto completare il puzzle.

Open Fiber si aggiudicava 8 lotti su 15, FiberCop otteneva i restanti 7 lotti. Sulla carta, una divisione equilibrata che avrebbe dovuto portare alla copertura totale del territorio entro il 2026. Ma i nodi sono venuti presto al pettine, aggravando ulteriormente l’anomalia di uno Stato che finanzia due società concorrenti.

Le difficoltà operative e i ritardi strutturali

I problemi che oggi minacciano il completamento del progetto hanno radici profonde. La carenza di manodopera specializzata non è un fenomeno improvviso: già nel 2019 le associazioni di categoria segnalavano la mancanza di almeno 15.000 tecnici specializzati nel settore delle telecomunicazioni. Anche la pandemia ha aggravato la situazione creando colli di bottiglia nella catena di fornitura di materiali utili alle infrastrutture.

In regioni come la Toscana, dove Open Fiber sta incontrando le maggiori difficoltà, si sommano problematiche specifiche: territori collinari che rendono complessi gli scavi, centri storici con vincoli architettonici stringenti, procedure autorizzative che coinvolgono una miriade di enti locali. Ogni comune ha le sue regole, ogni soprintendenza le sue richieste, ogni strada la sua storia di sottoservizi da non danneggiare.

A questo si aggiunge la competizione per le risorse. Con FiberCop e Open Fiber in lotta per accaparrarsi le poche imprese specializzate disponibili ha fatto lievitare i costi e allungato i tempi. Alcune ditte subappaltatrici si trovano a dover scegliere tra commesse concorrenti, privilegiando inevitabilmente quelle più remunerative o logisticamente più semplici.

La pressione politica e le scadenze PNRR

Il governo Meloni ha ereditato una situazione già compromessa. Il Ministro per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e per il PNRR, Tommaso Foti, in una comunicazione qualche giorno fa alla Camera dei Deputati proprio sullo stato di attuazione del PNNR, ha ventilato a proposito del piano “Italia a 1 Giga” l’utilizzo del “potere di revoca”: chi non rispetta le scadenze perde i finanziamenti. Ma in concreto è davvero difficile che il governo possa utilizzare questo potere, senza prima avere un’alternativa sul tavolo. Se la posizione dura riflette la pressione europea sul rispetto dei milestone del PNRR, quella di Foti sembra essere più una pistola scarica che altro, rischiando di creare ulteriore caos in un settore già in affanno.

La data del 30 giugno 2025 rappresenta il primo vero banco di prova. Entro quella data, Open Fiber dovrebbe aver completato una parte significativa dei lavori nelle aree grigie. I numeri parlano chiaro: dei 2,2 milioni di civici assegnati (già oggetto di riduzione), almeno 250.000 sono a rischio secondo le ultime stime dell’azienda. Un ritardo che potrebbe innescare la procedura di revoca parziale dei lotti.

FiberCop si è già detta pronta a subentrare, forte della sua maggiore capillarità operativa e della sinergia con la rete TIM esistente. Ma il subentro non è un’operazione semplice: richiede la rinegoziazione dei contratti con le banche finanziatrici, accordi con i sindacati per il trasferimento del personale, intese con i fornitori già impegnati con Open Fiber. Tempo che manca.

Le opzioni sul tavolo e l’immobilismo politico

La riunione del 28 maggio presso il Dipartimento della Trasformazione Digitale che avrebbe dovuto affrontare il nodo dei lotti per evitare i ritardi sul PNNR è stata “interlocutoria” ma si è conclusa senza alcuna decisione e con un rinvio della discussione. A questo punto le opzioni del Governo si restringono: si parla di una proroga soft, al fine di concedere più tempo a Open Fiber mantenendo formalmente le scadenze ma introducendo meccanismi di flessibilità. Una soluzione che potrebbe salvare la faccia ma che potrebbe non essere accettata da Bruxelles.

Oppure una soluzione un po’ più drastica: la revoca parziale e subentro, trasferendo a FiberCop i lotti più problematici al fine di concentrare le attività di Open Fiber dove può realisticamente completare i lavori. Uno scenario complesso ma pragmatico.

Il nodo politico irrisolto

Ma il problema di fondo resta un altro: è necessario mettere da parte l’inefficienza di una partecipazione statale in entrambe le società che si comportano – perché lo sono – come concorrenti. L’Italia è citata per essere il primo esempio europeo di una separazione infrastrutturale dell’incumbent, ma è anche l’unica in cui lo Stato partecipa in due società tra loro direttamente concorrenti.

La politica continua a sostenere che la digitalizzazione non è più un optional ma un prerequisito per lo sviluppo, deve essere conseguente nelle azioni. Il paradosso è che mentre due società si confrontano per chi debba posare i cavi e raggiungere gli obiettivi del PNRR (e non perdere i finanziamenti europei), il governo che deve superare l’impasse è appunto nella compagine di entrambe. Un’anomalia che andrebbe risolta con una decisa volontà politica e il governo avrebbe tutti i “poteri”, sia quelli della politica e sia quelli della “moral suasion”, per risolvere l’anomalia e i ritardi sul PNRR al fine di realizzare nel giro di due anni una sola società wholesale only partecipata dallo Stato.

Verso una soluzione inevitabile

Tra l’altro, a breve l’Agcom dovrebbe concludere l’analisi di mercato sulla separazione infrastrutturale di TIM e di conseguenza dichiarare FiberCop un operatore wholesale only ai sensi dell’articolo 91 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche. È quello che traspare da un intervento del Presidente dell’Agcom, il 27 maggio in occasione della presentazione della relazione annuale dell’ODV sulla parità di accesso di FiberCop svoltasi alla Camera dei Deputati.

Per amore di verità, il Presidente Giacomo Lasorella non ha fatto dichiarazioni ufficiali in tal senso, non ha quindi dichiarato quale sarà la decisione finale dell’Autorità su FiberCop, ma ha in un certo modo prefigurato che un ruolo dell’ODV, e quindi un qualche rimedio regolatorio ex ante (ma non più come oggi anche sui prezzi), potrebbe essere mantenuto anche nel caso in cui FiberCop fosse dichiarato operatore wholesale only ciò soprattutto per garantire la non discriminazione nella prestazione dei servizi agli OLO (cioè gli operatori di soli servizi che utilizzano la rete di FiberCop). E quando si mettono sul piatto certi scenari significa che gli stessi sono stati – almeno – oggetto di valutazione.

Ma del resto, senza utilizzare la palla di vetro, è innegabile che, come anche al Tar del Lazio che ha confermato la decisione cautelare sull’interruzione dell’obbligo di replicabilità del prezzo nei confronti di TIM, FiberCop sia ormai un soggetto del tutto separato da TIM e che ha tutte le carte in regola per essere dichiarato dall’AgCom un operatore wholesale only.

La conclusione è inevitabile di questo riconoscimento dovrà quindi avere un esito: la dell’anomalia italiana di uno Stato che partecipa due soggetti che competono sullo stesso mercato.



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