Popolazione attiva: fra 10 anni svaniti oltre 7.500 addetti


CREMONA – Tra 10 anni, l’Italia perderà quasi l’8% della sua forza lavoro. La tempesta demografica in arrivo (con la conseguente erosione del Pil) si abbatterà anche sulla provincia di Cremona, anche se in misura più contenuta: secondo le proiezioni della Cgia di Mestre, nel 2035 la popolazione in età lavorativa della Città del Violino e del suo territorio avrà assistito, nel corso del decennio precedente, ad una contrazione del 3,4%, per una perdita complessiva di 7.569 unità.

Le analisi fornite dal centro studi della Cgia (su base Istat) disegnano il panorama di un Centro-Nord che subirà il colpo con intensità ridotta. Discorso valido, appunto, anche per Cremona (93ª nella classifica stilata dalla Cgia, che va dalla provincia più colpita a quella meno colpita), oltre che per i territori limitrofi: la contrazione che ci si aspetta in provincia di Parma è la più bassa d’Italia (-0,6%), quella bresciana è di poco inferiore a quella cremonese (-3,1%), analogamente a quella che interesserà il territorio di Pavia (-3,2%). Tra i ‘meno peggio’ c’è anche il capoluogo lombardo: Milano, secondo lo studio, perderà solamente l’1,6% della sua forza lavoro.

Molto più preoccupante è il futuro del Sud Italia. «Lo scenario più critico investirà la Sardegna – mette in guardia la Cgia – che entro il prossimo decennio subirà una riduzione di questa platea di persone del 15,1 per cento (-147.697 persone). Seguono la Basilicata con il -14,8 per cento (-49.685), la Puglia con il -12,7 per cento (-312.807), la Calabria con il -12,1 per cento (-139.450) e il Molise con il -11,9 per cento (-21.323)».

Differenze regionali a parte, resta il fatto che tutte le 107 provincie prese in esame dovranno confrontarsi in futuro con un vistoso segno ‘meno’. Sul piano nazionale c’è aria di nuvole nere all’orizzonte. «Le proiezioni demografiche – allerta la Cgia – indicano che, entro i prossimi dieci anni, la popolazione in età lavorativa presente in Italia diminuirà di quasi 3 milioni di unità (precisamente 2.908.000)», considerato che «all’inizio del 2025 questa fascia demografica contava 37,3 milioni di persone», mentre «Si prevede che la platea nel 2035 scenderà a 34,4 milioni».

Le radici profonde del fenomeno, secondo la Cgia, derivano direttamente dall’inverno demografico, che gioca un inevitabile scacco-matto al ricambio generazionale. In particolare, bisogna considerare «Il progressivo invecchiamento della popolazione: con un numero sempre più ridotto di giovani e un consistente gruppo di baby boomer prossimo all’uscita dal mercato del lavoro per raggiunti limiti d’età, il nostro Paese rischia lo ‘spopolamento’ della coorte anagrafica potenzialmente occupabile».

Il dato arriva anche al cuore delle aziende, che già assistono ai segni della crisi imminente. Sono anni, ormai, che la difficoltà di reperire manodopera qualificata pone seri ostacoli allo sviluppo delle imprese locali. Tutto il Paese è coinvolto nella crisi, anche se, precisa la Cgia, per il Sud si intravede la possibilità di un riscatto: «Nei prossimi anni – si legge nel report – il Mezzogiorno potrebbe incontrare meno problemi rispetto al Centro Nord. A differenza di quest’ultimo, infatti, il Sud e le Isole presentano tassi di disoccupazione e inattività significativamente elevati, che potrebbero consentire di colmare almeno parzialmente le lacune occupazionali previste soprattutto nel settore agroalimentare e in quello turistico-ricettivo».

La carestia di lavoratori, nell’arco di un decennio, comporterà un drammatico crollo della produzione. Secondo lo studio della Cgia, molte aziende (in particolare le PMI) saranno costrette a ridurre gli organici, nell’impossibilità di assumere. Per quanto riguarda le medie e grandi imprese, invece, la problematica potrebbe risultare meno impattante: «Grazie alla possibilità – aggiunge il report – di offrire salari superiori alla media, orari flessibili, benefit e pacchetti significativi di welfare aziendale, i giovani presenti sul mercato del lavoro tenderanno a preferire le realtà più strutturate piuttosto che le piccole e micro imprese che solo in piccola parte sono in grado di erogare tali benefici».





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